29 ago 2016

Francesco, poeta tra la Rabatana e i peri selvatici.

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A Tursi ci ritorno volentieri.
Ci andavo da ragazzino in trasferta per le partite giovanili di pallacanestro.
Non era tempo di palazzetti e parquet. Ricordo del campo all'aperto e del vento freddo, o del sole cocente, e delle mattonelle.
Ogni volta che ci ritorno chiedo di quelli che erano avversari mai domi e che ora sono amici.
Chiedo del Prssor, Salvatore Martire, allenatore di centinaia di giovani e per decenni simbolo della pallacanestro tursitana.
Più in la nel tempo e grazie a Carmela  ho scoperto altri angoli e persone.
Ho conosciuto la cripta della chiesa di Santa Maria Maggiore e il limoncello di suor Pacifica e suor Celeste, ultime guardiane di una fede antica e genuina.
A Tursi ci ritorno volentieri e ogni volta scopro angoli diversi.
E ogni volta scopro bella gente e un pizzico di follia.

Foto di Giovanna Cuoco
Questa è stata la volta di Francesco, poeta, girovago e potatore di peri selvatici, raccoglitore di storie e di tronchi che assomigliano a qualche animale.
 Ma Francesco è sopratutto un poeta, uno di quelli veri, uno di quelli che con la poesia ci nasce e in qualche modo, secondo i propri strumenti, trova il modo di tirarla fuori.
Come conosco Francesco? Grazie ad una traccia o un segno direbbe qualcuno.
In auto con Francesco Silvio e Giovanna, stavamo andando su in Rabatana e lungo la strada che conduce al quartiere arabo noto degli alberi bardati con veli bianchi.
"Che sono quei veli intorno a questi alberi?" Chiedo.
"E' opera di Francesco".


Mi dice l'altro Francesco, non poeta ma architetto e innamorato e conoscitore della Rabatana.

"Segna così gli alberi selvaggi che pota e accudisce, - e continua- ce ne sono a centinaia curati da lui"
Io e Giovanna diciamo che è assolutamente necessario conoscerlo e incontrarlo.

Di li a poco, in piazza, incontriamo questo Francesco che sulla sua auto ha appena caricato un tronco che richiama la testa di un cammello o forse una una giraffa. Forse entrambi, ma poco  importa.



Dopo aver chiacchierato  abbiamo la conferma che Francesco è una persona piena di energia e positività.
Una di quelle belle persone in cui i sogni albergano anche da sveglio.
Chissà se conosce Baudelaire che scrisse una frase che sembra scritta  per lui:
"Tieniti i sogni: i saggi non ne hanno di così belli come i pazzi!"
Gli chiediamo se è vero che è un poeta e lui ci risponde così:



Ecco cosa scrive di lui, nel 2005, Salvatore Verde su un sito locale:
Storie di paese, di un poeta prolifico con grande sensibilità ecologista. 
Di Francesco Gallicchio i paesani di una certa età ricordano l’interruzione del comizio dell’on. Emilio Colombo, con il suo urlo: “Vogliamo il lavoro”. Manco a dirlo, è stata l’assunzione più rapida verificatasi, poi con l’incarico di analista chimico presso l’Anic in Valbasento. 
Erano gli anni Settanta, altri tempi. Poi la cassa integrazione e la collaborazione nella scuola-guida di famiglia (la seconda a Tursi, “dopo una lunga battaglia politica e civile per ottenerne l’apertura”), prima della gestione in proprio dell’autoscuola, come insegnante-istruttore abilitato. Insomma, un normale vivere, sovente con irrefrenabile dinamismo, “scontando qualche sguardo di sufficienza solo da parte di chi si ritiene immune dal destino”.
A 59 anni, ben portati, “ma con lievi acciacchi uditivi”, Ciccio “Tempesta”, come lo chiamano affettuosamente tutti i compaesani, continua a lavorare e intensamente, trovando, però, il tempo per dedicarsi sempre più ai suoi interessi culturali, motivo di grande soddisfazione per lui e di riflessione per la comunità. 
Autore di oltre 220 liriche, è un poeta segnalato anche in regione, è presente in opere collettive e in alcuni testi di studiosi della poesia vernacolare (ma lui scrive “pure in lingua dai primi anni Sessanta”), con una teatralità eccessiva quando declama i suoi versi lineari, ritmici, pungenti, se non provocatori rispetto all’etica dominante, scritti con la quasi ellissi vocalica, “nel tentativo di restituire già dal segno il suono di una lingua, ormai più simile a un linguaggio, morente”. 
Non secondaria, tuttavia, è la sua inventiva meccanica brevettata, sugli attrezzi rurali e macchinari agricoli, ma soprattutto la dedizione per la natura del luogo, “un escursionista del territorio tursitano, che tante sorprese ci riserva ancora”. 
Gli dobbiamo la riscoperta di un antichissimo mulino ad acqua e di una forse coeva fornace per mattoni, rivelazione di qualche settimana addietro, in località Santissimo (dal nome di una nobile famiglia Tursitana, ormai estinta, ricordano Mario e Rocco Bruno, studiosi locali, ndr.), come pure la intraprendenza solitaria della pulizia sentieristica per accedervi (gli sono occorsi moltissime ore di lavoro manuale, faticoso e non senza rischi). La stessa passione che lo ha portato ultimamente ad effettuare oltre sessanta innesti sui perastri (“i pràini”), pere immangiabili ma abbondanti nelle località Rabatana, San Rocco, Pescogrosso, Sinni, “con una percentuale di riuscita che ha superato il 95%, così avremo presto “zuccherine” (maturano tra luglio e agosto) e “vernìe” (tra settembre e ottobre). 
Perché tanta frenesia? “Sono un inappagato, mi sembra di avere dentro qualcosa che mi spinge a farlo. 
Ma il mio operato è sotto gli occhi di tutti, essendo finalizzato unicamente al miglioramento dell’ambiente in cui viviamo, a mie spese, senza finalità lucrative e per l’utilità pubblica. 
I giovani non conoscono l’eredità trasmessa dalle precedenti generazioni. 
Io, semplicemente vorrei ricordare loro quante cose si possono fare per dare un senso al dono della vita che hanno ricevuto.
La poesia, invece, è la mia quiete interiore, e il mio tormento”. 

Francesco mi ha riportato alla mente un altro... poeta di strada, Ciccio , anche lui, che nei mesi estivi lo incontravi seduto davanti casa sua nel centro storico di Bernalda.

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