10 mar 2009

C'era una volta IL Carnevale a Montalbano

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Baffi di Carbone Carnevale, un tempo, lo sentivi arrivare tra le zaffate, della tramontana, con suoni, canti e grugniti di maiale. Ne era investito l’abitato e la festa andava per le lunghe prendendo parte del giorno dopo, quando con le prime luci dell'alba, gruppi di persone, dal passo incerto per le forti libagioni, mascherati con indumenti in disuso e baffi ricalcati con il carbone, cercavano di raggiungere la propria dimora. La serata era trascorsa a casa del compare che, prima restio ad aprire la porta, si era, poi deciso benevolmente dopo la cantilena «vegn a cantà vicin a stu purtone, iauziti patrune e piggh u buttigghione», accompagnata dal suono monotono del «cupa-cupa». La tavola era imbandita- nel paiolo il bollito con la verdura, sulla brace costate e fegato, nel tegame cotica con carne e spezie. Davanti ad ogni commensale la fiaschetta di vino novello, ottenuto da uve maritate» in giuste proporzioni, succo secco e profumato, spremuto dallo Zibibbo, dalla Malvasia, "Sangiovese e da una manciata di uva fragola per il tono frizzante. Una tavola pantagruelica, attesa per un anno e da raccontare sino all'anno nuovo, dove il salame prendeva il Posto d'onore non a caso ricordato dalla seconda strofa della cantilena carnevalesca: «Vegn a cantà vicino a stì pitrizzi, iauziti patrune e pigli u sauzizzi». L’ingresso ufficiale del carnevale coincideva con il 17 gennaio e con i riverberi dei falò accesi nei rioni in onore di S. Antonio Abate. La tradizione voleva, tra un misto di sacro e di profano, l'intercessione del santo protettore degli animali perché il «mal rossino» rimanesse fuori dell'abitato e il maiale crescesse sano con carni sode e rosee. Allora, accanto all'uscio di casa, addossato al muro, c'era il truogolo e il paletto al quale si legava il maiale per impedire che si allontanasse. Era lì che ingrassava: il grugno sempre nel pastone preparato con farina di granturco, ghiande ed erbe selvatiche carnose che, ancora oggi, crescono nei dirupi cretosi. Generalmente ogni famiglia allevava due maiali: uno perché in casa, per tutto l'anno ci fosse carne e condimento e il secondo per far fronte alle spese di locazione o per acquistare l'occorrente per vestirsi a nuovo. Con l'autunno, alla potatura, venivano ammucchiati i rami recisi abilmente dal contadino per rinnovare la pianta. Nei primi giorni di gennaio, gli arbusti venivano trasportati in paese e i grossi carichi di sterpi, tra tante difficoltà, venivano ammucchiati nelle piazze e nei larghi per essere dati alle fiamme nella serata del 17. Una folla di grandi e piccoli erano intorno alle fiamme che si elevavano sempre più alte, a superare i piani delle case circostanti ma soprattutto i falò degli altri rioni per conquistare il diritto di offrire a Sant' Antonio Abate il maialino dell'ultima nidiata. Veniva allevato un po' da tutti. Con le orecchie mozzate (segno di riconoscimento) poteva girare per le vie del paese e porre il grugno nel truogolo e saziarsi liberamente senza essere scacciato. Cresceva e dopo un anno veniva macellato con il carnevale e le carni distribuite ai poveri. Il fuoco aveva anche un significato di incontro. Man mano che le fiamme scemavano, si facevano largo e prendevano i primi posti, attorno al fuoco, i giovani. Era l'inizio di una gara di prodezze. Le ragazze erano in circolo, addossate alle mamme a nascondere le emozioni quando, con una breve rincorsa il giovane saltava attraverso le fiamme e, superando la brace ardente, tra un misto di viva partecipazione e di tremore da parte delle giovani donne, si trovava dall'altra parte. Nascevano così le prime simpatie che, sino all'anno nuovo, si mutavano in storie d'amore e i novelli fidanzata, all'accensione dei nuovi falò erano solo spettatori. A tarda sera la brace veniva portata in casa: entrava il calore e la benedizione del santo. L’indomani unica testimonianza del grande falò il selciato bruciacchiato: la cenere, alle prime luci dell'alba veniva riposta in sacchi, trasportata in campagna e sparsa tra le piante perché il frutto fosse abbondante e sano. Il Carnevale comunque pur nella sua semplicità rompeva la monotonia di giorni uguali, fatto di lavoro e di stenti e con un rimpianto profondo terminava e si accettava la Quaresima con un misto di contrasti, finendo però per osservare, con umile ubbidienza, questo periodo di astinenza e privazioni. Il giorno successivo alla «morte di Carnevale» nei vicoli, alle finestre, su un filo teso tra balconi, appariva «Quaremma»: una vecchia in gramaglie, ricavata da resti di stoffe, con lana e fuso, simboli di lavoro e sobrietà ed ancora peperoni secchi, una cipolla, un'aringa affumicata, quale monito alla frugalità ed alla parsimonia. Tradizione che affonda le radici nel mondo della mitologia perché c'è chi ritiene «Quaremma» una delle Parche che fila il filo della vita, stando sempre pronta a reciderlo. Quaremma la si accettava e con la sua presenza c'era l'osservanza alla moderazione, all'economia, al ritiro, alla purificazione del corpo e dell'anima. Cose che oggi fanno sorridere, ma allora avevano il loro fascino legato alla vita del tempo. http://utenti.lycos.it/slltt/Tamerici53.htm dal libro : Tamerici di Enzo Palzzo Share

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