1 dic 2008

Palla a due

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PALLA A DUE Due al centro del cerchio. Gli altri otto intorno. Tutto è pronto. Tutti pronti a schizzare in alto, a scattare lateralmente o in avanti o a rincorrere qualcuno più abile e fortunato di lui che si sarebbe proiettato verso canestro. Di là dal cerchio, oltre, fuori dal rettangolo, molti, tanti occhi attendevano di seguire ogni movimento, ogni smorfia. Stava per iniziare una partita di basket, o pallacanestro. A dir il vero, stava per dare il via, non una partita qualsiasi, ma alla partita. L’incontro che avrebbe deciso l’intera sorte di una stagione. La sfida che poteva significare l’apoteosi o la distruzione di un’intero gruppo e di tutte le persone coinvolte. Le due squadre avevano avuto, fino a quel punto, un percorso strepitoso. Niente e nessuno sembrava reggere alla loro marcia inarrestabile. Le squadre avversarie cedevano una dopo l’altra. I giocatori avversari uscivano quasi sempre a capo chino consci della loro impotenza. Dopo ogni gara, i
giocatori vittoriosi si sentivano imbattibili, padroni del palazzetto e del mondo che li circondava. Ora, da quel preciso momento in poi il regno si sarebbe consolidato o sgretolato. La notte precedente non era stata una notte tranquilla. L’adrenalina era diventata la padrona del corpo di ogni giocatore. La mattina sembrava non arrivare mai e a giorno inoltrato non si cercava altra compagnia che quella dei compagni di squadra. Il pomeriggio dopo pranzo sembrava infinito e il borsone, lì pronto per essere prelevato, aspettava con ansia il momento della presa. Si voleva essere già lì. Lì dentro il campo, per scacciar e respingere tutte le paure e le ansie e lasciare libero sfogo all’istinto, al talento, all’intelligenza, alla forza, all’agilità. Si voleva essere dentro il campo, che si sarebbe trasformato nel solo luogo al mondo esistente, per liberare l’atleta. Per disincagliarlo dalle ansie dell’attesa di un confronto che si sapeva doveva arrivare ma che partita dopo partita, vittoria su vittoria diventata sempre più presente e assillante. Unico modo per liberarsi da questo fardello era scaricarlo nel campo. Varcato l’ingresso, linea che separava il mondo esterno dal palazzetto, il giocatore percepiva le responsabilità in tutta la sua gravità amplificata dall’attesa. Negli spogliatoi il silenzio era l’unica cosa che i giocatori desideravano e le raccomandazioni e i consigli sembavano perdersi nel vuoto. La mente era proiettata in avanti nel tempo e nello spazio. Nel momento successivo in cui l’arbitro avrebbe alzato la palla e il gioco avrebbe avuto inizio. Le urla dei tifosi e i rimbombanti cori di incitamento, appena la squadra irrompeva nel campo, aumentava la velocità del sangue nelle vene. La testa di ogni giocatore seguiva un proprio percorso e i movimenti, i gesti, i rituali fatti fin allora, da anni, ogni domenica, ogni santa maledetta domenica, sembravano inopportuni e fuori luogo. Si incitava i compagni ma soprattutto se stessi. Si guardava l’arbitro, i compagni, l’allenatore. Si cercava uno sguardo amico, si cercava sicurezza, ma ogni sguardo incrociato desiderava lo stesso. Il pubblico ti chiedeva quello per cui lo avevi indotto a recarsi in quel posto, seduto tra quegli spalti in quel pomeriggio come ormai faceva ogni domenica da mesi. Il pubblico voleva una sola cosa, la tua vittoria, la vittoria della sua squadra. Non era lì per veder vincer la loro squadra o assistere allo spettacolo dello sport, era lì per veder vincere se stesso. Ognuno del pubblico si sentiva rappresentato da quei giocatori. Dalla palla in due in poi, ogni giocatore avrebbe rappresentato i volti, la voce di ogni spettatore. Vincenti sarebbero stai portati in trionfo, pronti a godere degli applausi e dei sorrisi della gente o al contrario, perdenti, sarebbero stato considerati come dei Giuda che messi di fronte alla prova più importante avevano tradito se stessi e soprattutto chi aveva creduto in loro. Ma diversamente da Giuda non ci sarebbe stata possibilità di redenzione. Non esisteva una prova d’appello. Di colpo, tutto nella testa scomparve e il nulla assorbì la mente dei giocatori. L’arbitro aveva fischiato e la palla già roteava nell’aria. Share

1 commenti:

  • 1 dicembre 2008 alle ore 23:05
    Anonimo says:

    Ovviamente il racconto è autobiografico.....
    Molto, molto bello.....

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